Miroslav Tichý e Evgen Bavcar, pur avendo un background completamente diverso, hanno esplorato i confini più remoti del linguaggio fotografico.

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Miroslav Tichý con una macchina da lui stesso costruita.

Studente di belle arti, Tichý (www.tichyocean.com) smette di frequentare l’accademia per non adeguarsi allo stile socialista indottrinato dalla Cecolosovacchia comunista. Tornato nella città natale, finisce per essere considerato un dissidente, da trattare come un malato mentale.

Inizia a fotografare negli anni ’60 con una macchina assemblata a mano. Ormai ridotto alla stregua di un barbone, fotografa soprattutto le proprie concittadine, senza che queste neppure se ne accorgano. Sostiene che bisogna confezionare immagini brutte, e si impegna affinché le sue lo siano, aggiungendo qua e là qualche errore. Infine incolla le stampe su cartoncini che dipinge o decora a penna, creando un ibrido fra pittura, fotografia e collage. La celebrità, che lo sfiora quando ormai è anziano, sembra passargli accanto, senza toccarlo. Muore ultra-ottantenne nel 2011.

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© Mirsolav Tichý

Un altro fotografo, che per l’intensità del proprio lavoro si potrebbe dire che indaghi il paradosso in misura anche più radicale, è il filosofo slovacco Evgen Bavcar (www.evgenbavcar.com). Completamente cieco, a seguito di un duplice incidente avvenuto all’età di 11 anni, utilizza una tecnica di illuminazione particolare, che gli permette, diremmo quasi, di isolare i propri soggetti dalle tenebre.

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© Evgen Bavcar

Il lato interessante nell’opera di questi due maestri, è come una particolare scelta tecnica possa produrre effetti che vanno ben oltre il semplice lato estetico o stilistico. Bavcar, ad esempio, sceglie il pennello luminoso, il cui procedimento è simile a quello di un cieco mentre perlustra con la mano, e consiste nel reggere una torcia elettrica con cui illuminare ciò che si vuol catturare sullo scatto. Sicché i raggi di luce altro non sono se l’estensione delle proprie dita. Mentre con Tichý la tecnica riemerge, dal suo completo annullamento sistematico, quale espressione dell’estremo del rifiuto nei confronti della società in cui vive.