Il grande fotogiornalista Mario Dondero, che con la sua presenza ha illuminato il secondo Novecento, è stato sconfitto dalla malattia con la quale stava combattendo da tempo. È mancato ieri, 13 dicembre, a Fermo, nelle Marche, dove da tempo risiedeva.

Mario Dondero con Gianni Berengo Gardin, Letizia Battaglia e Shobha (Fotografia Cosmo Laera)
Mario Dondero, il terzo da sinistra, con Gianni Berengo Gardin, Letizia Battaglia e Shobha (Fotografia Cosmo Laera).

Salutiamo con commozione e dolore la scomparsa di un caro amico, la scomparsa di un fotogiornalista tra i più significativi e influenti delle stagioni avviate con i fermenti culturali e sociali degli anni Cinquanta. Sempre schivo, sempre defilato dalle luci della ribalta, Mario Dondero (nato a Milano, il 6 maggio 1928) ha impersonato quella figura romantica di fotografo senza compromessi, votato alla ricerca e rivelazione di verità nelle quali ha fortemente creduto.

Del resto, come siamo soliti pensare, la verità è sempre e comunque il più prezioso dei beni, e va trattata con parsimonia e ritegno.

Mario Dondero è stato uno dei maggiori fotogiornalisti italiani. Ha iniziato a lavorare per L’Unità, L’Avanti, Milano Sera, Le Ore. Come molti della sua generazione (milanese) si è formato ai tavolini del Bar Jamaica (nel quartiere di Brera), in incontri con fotografi e intellettuali non proprio intonati con la cultura dominante (Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas).

Nel 1955, si è trasferito a Parigi, dove ha ripreso il filo conduttore della propria esistenza: qui ha conosciuto Roland Topor, Claude Mauriac e Daniel Pennac e frequentato il gruppo di scrittori del Nouveau roman.

Ancora. Nella figurazione antropologica di Mario Dondero, che supera confini geografici e sociali, si impone un impeto libertario che la sostiene (le indagini del Tribunale Russell, gli scatti in Afghanistan, le torture in Algeria, fino a girare un documentario sui Griots, in Africa). In questa Fotografia, si coglie l’attenzione e lo sforzo (sovente il coraggio) di comunicare la giustizia, la verità e il bene comune negato agli esclusi della Terra.

La visione comunarda di Mario Dondero sembra dire che la verità abita l’uomo interiore, e quando i più l’avranno scoperto si riverserà fuori, nel mondo in rivolta. La nascita di una società libera e giusta sboccia da una rinnovata resistenza che si traduce in disobbedienza civile.

Per Mario Dondero, «La fotografia è (stata) un magnifico strumento per raccontare, coglie situazioni che le parole non possono comunicare. Ciò che intendo è che non mi interessa l’aspetto tecnico o artigianale della fotografia, che non mi interessa l’estetica, ma il contenuto delle fotografie. Mi basta raggiungere una capacità tecnica sufficiente per raccontare delle storie. Penso che il fotogiornalismo sia l’espressione più alta della fotografia, e sono convinto che sia più importante pubblicare su un giornale che allestire una mostra. Scomodare l’identificazione arte per il reportage mi sembra eccessivo, anzi direi che troppo talento artistico nuoce al racconto».