La curiosa storia dei semafori robot di Kinshasa, ideati e prodotti da Therese Korogonzi, titolare della Women’s Tech, per risolvere i problemi del traffico della capitale congolese e che potrebbero presto essere usati in altre metropoli africane

Come in ogni metropoli da 10 milioni di persone, il traffico a Kinshasa è diventato uno dei problemi principali e le sue strade sono intasate ogni giorno da un numero crescente di automobilisti. Le autorità cittadine, consapevoli della mancanza di fiducia nella polizia da parte della gente e favorevoli all’impiego di nuove tecnologie, hanno trovato una soluzione creativa al problema degli ingorghi. In parte semafori, in parte robots dei cartoni animati, questi marchingegni metallici di 8 metri si possono incontrare in ogni parte della città, intenti a dispensare direttive sonore al traffico pedestre e motorizzato. Disegnate e costruite dalla Women’s Tech dell’imprenditrice locale Therese Korogonzi, le macchine si alimentano ad energia solare e hanno costi di produzione e manutenzione contenuti. Dotati di videocamere integrate e busti rotanti, i robots documentano i flussi di traffico, inviandone la registrazione alla centrale di polizia. I ‘robocops’ lavorano senza interruzione, 365 giorni all’anno e, nota cruciale per gli habitué della corruzione a Kinshasa, non accettano mazzette. L’iniziativa ha avuto un così grande successo nella Repubblica Democratica del Congo, che altre nazioni africane stanno valutando l’importazione dei ‘robocops’ che hanno rivoluzionato il traffico lungo le strade di Kinshasa.

Autore
Brian Sokol
www.briansokol.com

Attrezzatura
Sony Alpha 7R, Sony Alpha 7S
Sony RX1R
Zeiss 55mm f/1.8 prime
Zeiss 35mm f/2.8 prime

Link
Instagram
www.imagingambassadors.sony.net

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Intervista a Brian Sokol
a cura di Matilde Castagna

“Secondo me, la fotografia ha a che fare con due cose – l’informazione e l’emozione. Se non senti nulla mentre scatti una fotografia, la gente non sentirà niente vedendola”.

Brian Sokol è un fotografo statunitense che si occupa principalmente di documentare questioni umanitarie, quali i diritti umani e le crisi mondiali.
Scrittore per formazione, si serve tanto delle immagini quanto delle parole per raccontare le storie degli individui ignorati dai media.
Dopo aver lavorato come guida di alta montagna sulla catena himalaiana, ha cominciato la sua carriera fotografica in Nepal, paese di cui ha imparato la lingua dedicando tutto se stesso all’apprendimento della cultura locale. Nel 2011 si è trasferito in Sud Sudan per documentare dall’interno i primi due anni di vita della nazione più giovane del mondo.

Descrivi il momento in cui la fotografia ti ha cambiato la vita.
Brian Sokol – Quando avevo 17 anni, sono andato con i miei genitori nelle Rocky Mountains. Ero un teenager lunatico, che sentiva di non appartenere al Midwest americano dove ero nato e cresciuto. In un pomeriggio piovoso, affittammo una jeep e guidammo oltre il punto dove la vegetazione cominciava a scarseggiare fino a raggiungere una cavità costellata da licheni ghiacciati, marmotte e resti di attrezzattura da minatore, chiamata Yankee Boy Basin. Quando la strada divenne troppo dissestata perché la jeep potesse proseguire, decisi di arrampicarmi a piedi fino alla cima. Presi in prestito la piccola compatta di mio padre e mi incamminai verso un lago alpino che riuscivo a intravedere fra le nuvole. L’ora a seguire fu epifanica. Due dei più grandi amori della mia vita, la fotografia e le lande selvagge, mi catturarono, entrambi nello stesso istante. Nel registrare momenti transitori di bellezza selvaggia, sentii nascere un nuovo scopo. Sarebbe passato oltre un decennio da allora, prima che cominciassi a puntare macchine fotografiche su eventi politici o tematiche sociali, ma tutto ebbe inizio quel giorno, circondato dalle montagne, mentre stringevo fra le mani una compatta gocciolante nell’aria sottile del Colorado.

Se potessi riassumere in una sola parola il tuo lavoro, quale sarebbe?
Brian Sokol – Umano.

Qual è la persona, il lavoro o la cosa più notevole che hai fotografato finora è perché?
Brian Sokol – Nel 2010 mi trovavo in Birmania, quando Aang San Suu Kyi venne rilasciata dopo 15 anni di arresto ai domiciliari. Fu un’esperienza allucinogena – un senso di speranza era come sospeso nell’aria, così intenso e tangibile da poterlo assaporare. Una nazione intera si era alzata, barcollante sulla soglia del cambiamento, con il fiato sospeso dopo mezzo secolo di isolamento forzato. E in qualche modo eccomi lì – un ragazzo di St. Joseph, Missouri – dritto al centro della storia che va costruendosi. Il giorno successivo al suo rilascio, feci un ritratto a Suu Kyi che diventò la copertina del TIME. Non era la mia fotografia migliore, ma era uno dei momenti di cui vado più orgoglioso. Mi viene ancora la pelle d’oca quando penso al nostro incontro nel suo ufficio, al modo in cui le mie mani tremavano in un cocktail di paura e adrenalina e gioia, mentre mi concentravo sui suoi occhi scuri e gentili. Quindi la corsa lungo le strade di Yangon, nel tentativo di seminare gli scagnozzi del governo che inseguivano me e un collega fotografo. E’ stata una delle migliori esperienze della mia vita e mi sento più che fortunato per essere stato lì e per esserci stato in quel momento preciso.

Parlaci della tua lista dei desideri…cosa c’è in cima alla lista di ciò che vorresti fotografare?
Brian Sokol – Il mio lavoro si focalizza principalmente su persone che vivono fuori dal contesto in cui sono nate – lavoratori immigrati, rifugiati, persone dislocate al proprio interno. Quello che mi piacerebbe documentare da morire adesso è il modo in cui il clima sta cambiando e come l’urbanizzazione sta influenzando i gruppi nomadi. Subito dopo, vorrei vivere in un veicolo (un veicolo confortevole) per documentare in questo periodo di post-crisi-economica, la popolazione dei “senza tetto motorizzati” negli Stati Uniti – dove sono cresciuto, ma dove ancora non ho mai lavorato come fotografo. Infine, mi piacerebbe vivere per un anno in una comunità fra i ghiacci polari, perché la luce è così grandiosa – e la vita così strana – a latitudini estreme.

Se non fossi diventato un fotografo, cosa faresti oggi?
Brian Sokol – Da bambino ho detto a mia mamma, “Quando sarò grande, farò il fotografo di National Geographic oppure il veterinario.”
Lei mi ha risposto: “Oh, tesoro, sarai un veterinario fantastico.”
Ho sempre avuto qualche problema con l’autorità. Ora devo soltanto completare un assignment per National Geographic.

Cosa ne pensi del Global Image Ambassadors?
Brian Sokol – E’ fantastico avere il supporto logistico e creativo di Sony e della World Photography Association. Sony sta superando i limiti conosciuti nella performance e nel design delle camere e per questo è un’esperienza incredibile avere la possibilità di dare forma a prodotti che definiranno il futuro della fotografia. E’ una tecnologia destinata a superare le barriere conosciute e io, in quanto geek, sono come un maiale nella – beh, ci siamo capiti.