Nella sua tormentata lunga vita, il russo (?) Roman Vishniac, mancato il 22 gennaio 1990, a novantatré anni, ha acquisito un merito fotografico a dir poco unico: l’indelebile testimonianza visiva di un tempo e mondo. La fotografia come Memoria e Storia.

Roman Vishniac - Sara a letto (Varsavia; 1939)
Roman Vishniac – Sara a letto (Varsavia; 1939).

Roman Vishniac ha agito secondo princìpi che hanno ispirato tanta Fotografia di Memoria (dai nativi americani, di Edward Sheriff Curtis, agli Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander).

Nel 1936, interpretando in maniera (purtroppo) corretta gli eventi tedeschi, avvertì la tragedia che si sarebbe compiuta. Iniziò una documentazione dei ghetti ebraici dell’Europa orientale, per “raccontare” un mondo che sapeva sarebbe scomparso. Tra mille pericoli e qualche diffidenza, anche da parte delle comunità più ortodosse, compose il racconto visuale di un quotidiano che non avrebbe avuto alcun futuro: «Straziante canto di divina armonia» (Giuliana Scimé, in Il Fotografo Mestiere d’Arte; Il Saggiatore, 2003).

Testimonianza diretta: «Era folle entrare e uscire da Paesi dove la mia vita era costantemente in pericolo? Qualunque sia la domanda, la mia risposta resta sempre la stessa: doveva essere fatto. Sentivo che il mondo stava per essere gettato nella folle tenebra del nazismo, e che il risultato sarebbe stato l’annientamento di un popolo, senza che nessuno registrasse il suo destino».

Tra tanto materiale fotografico di Roman Vishniac, molto del quale è andato perduto tra mille vicissitudini, rimanete a lungo sul ritratto di Sara a letto, scattato a Varsavia, nel 1939: «Sara dovette stare a letto tutto l’inverno, perché lo scantinato non era riscaldato. Suo padre le disegnava dei fiori, gli unici della sua infanzia».