Altri, più qualificati di noi a farlo (?), avranno modo di approfondire la filologia delle fotografie che Gian Paolo Barbieri ha ordinato e riunito nella avvincente monografia Skin, che per tanti versi, tutti legittimi e intuibili, prosegue il cammino intrapreso due anni fa con la fantastica raccolta Dark Memories. Da parte nostra, ci preme sottolineare come e quanto queste fotografie, realizzate in tempi diversi, in tempi autonomi e distinti tra loro, rappresentino e sottolineino il senso di una Storia personale e del suo racconto visivo (fotografico).

Da un punto di vista che nasce e parte dalla Fotografia, con pertinente equilibrio tra le sue parole a contorno e l’esercizio professionale (che magari rivelano nostre presunte qualifiche), noi aggiungiamo qualcosa che nasce dal profondo e dall’interno: parole sulla fotografia, diciamo così, nella propria essenza.

In particolare, una volta ancora, una di più, mai una di troppo, prima di tutto è obbligatorio (oltre che perentorio) stabilire un parametro, un valore, un assioma: come e quanto la fotografia influenza la nostra vita. Autentico linguaggio del Novecento, non soltanto visivo, la fotografia appartiene tanto alla vita quotidiana attuale, da suggestionarla: dalle pagine dei giornali, come anche dalle affissioni pubblicitarie lungo la strada. Da e con Paul Valéry (in Scritti sull’arte – La conquista dell’ubiquità; 1934): «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano».

Tra tanto altro, senza alcuno spirito di qualsivoglia antagonismo o contrapposizione, la fotografia dà spessore a una propria caratteristica, che la distingue dalla pittura. Mentre i dipinti, di ogni epoca, sono sempre e soltanto attribuiti al proprio autore, e compongono i tratti della sua arte, la fotografia rimane vincolata anche al soggetto rappresentato. E su questo si basa il suo valore documentario ed esistenziale: che in questo caso specifico definiscono un tragitto individuale vissuto da Gian Paolo Barbieri oltre la propria fotografia di moda (per la quale è uno degli autori fondamentali del secondo Novecento: statura planetaria) e oltre i corrispondenti progetti etnici, svolti soprattutto nei mari del Sud del mondo.

Certo, non siamo così ingenui da non conoscere le insidie del linguaggio fotografico, e degli stereotipi che l’accompagnano. Per cui, sappiamo bene come sia soprattutto occidentale l’idea secondo la quale ciò che si trova davanti all’obiettivo debba essere vero, debba essere la realtà. Ancora: l’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta; il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica. Da cui: la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la sua diffusione e popolarità anche come documento.

In questo senso, le ardite e esplicite composizioni di Gian Paolo Barbieri, in continuità da Dark Memories all’attuale Skin, assolvono magistralmente la condizione che il filosofo sir Francis Bacon espresse nel 1620, in The new organon or true directions concerning the interpretation of nature: «The very contemplation of things as they are, without superstition or imposture, error or confusion, is in itself more worthy than all the fruit of inventions» (La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale di più di tutti i frutti dell’invenzione).

Già, le cose così come sono. Ma!

Ma, sfogliando le pagine di Skin, in monografia d’autore (Gian Paolo Barbieri) corre l’obbligo di una sostanziosa precisazione: non tutta la fotografia!

Ovverosia, c’è sempre bisogno di autori, siano professionisti o non professionisti conta poco (anche se in questo caso -composizioni, luce, atmosfera, empatia…- conta molto), che sappiano raggiungere il cuore e la mente degli osservatori, in un tragitto di andata e ritorno, senza soluzione di continuità.

Nella sua fotografia, Gian Paolo Barbieri pare scomparire dietro la superficie delle singole immagini: non prevarica mai i propri soggetti. Assente in apparenza, ma partecipe nella sostanza (e si vede bene!), sta come discosto, e lascia parlare l’immagine. E proprio l’immagine, la sua fotografia, bussa garbatamente alla porta. Noi l’apriamo e, come per miracolo, diventiamo protagonisti delle storie raccontate. Veniamo presi per mano e accompagnati, scatto dopo scatto, immagine dopo immagine, in un mondo che non conosciamo (almeno non in questo modo). All’inizio, possiamo anche rimanere sconcertati, e concentrarci solo su quanto esplicitamente le stesse fotografie raffigurano sulla propria superficie. Poi, proseguendo, veniamo coinvolti in una atmosfera che non è più definita dall’apparenza delle forme, ma è disegnata dalla sostanza dei contenuti.

Le fotografie di Gian Paolo Barbieri smettono di essere tali, fotografie, e si muovono, prendono vita, costruiscono vita. Non siamo più solo osservatori, ma diventiamo protagonisti. Ci muoviamo anche noi negli stessi spazi e percepiamo la presenza delle medesime persone: siamo nelle situazioni, non stiamo più guardandone solo delle raffigurazioni. È questa la magia della fotografia d’autore, che presto fa dimenticare la propria forma necessaria per lasciare libero il pensiero individuale. Ribadiamo: alla fine, non abbiamo più davanti agli occhi fotografie di sogni manifestati, ma siamo autenticamente al loro interno. Addirittura, cominciamo a sentire gli aromi dei luoghi e le voci della gente. Non siamo più protetti negli spazi personali della nostra vita, ma sul volto sentiamo il vento dell’aria aperta.

C’è di che riflettere. C’è di che discutere. Cosa sarebbe più la nostra vita senza fotografia? Cosa sarebbe la nostra mente, senza fotografie d’autore? La nostra percezione della realtà ne rimarrebbe mortificata. La nostra esperienza, impoverita. Il nostro sapere, modesto.

Siamo tutti sollecitati da queste fotografie di Gian Paolo Barbieri, in base alle quali ognuno richiama ricordi personali. Senza gesti forti, senza scippi o strappi, come sollecita il garbo fotografico dell’autore, ci siamo impossessati di queste visioni per farle nostre, per lasciare andare le nostre menti là dove l’efficacia visiva di Gian Paolo Barbieri ci ha condotti.

Io ho camminato per mio conto, incontrando molti che, come me, si sono allineati con queste fotografie. Ci siamo riconosciuti, educatamente salutati, prima di proseguire, ciascuno di noi, per il proprio personale cammino.

Se questo, anche questo, non è il compito della Fotografia, ditemi voi -allora- qual è.